Una delle migliori vite possibili

Il palco è sgombro. Nel silenzio stridono solo alcuni pianti di bambini. Il buio ci inghiotte senza far rumore.

Sulla scena, compare una donna. Appesi al suo braccio tre palloncini gialli. Un enorme palloncino bianco,
invece, è posto sopra alla sua testa, ne diventa il viso senza espressione.

Inizia una danza fatta di piccoli semplici passi, a cui si aggiunge una musica a tratti disarmonica.

Il movimento diventa via via più fluido, l’attrice posa a terra i palloncini e scopre il capo, lasciando che il
pallone-testa diventi guida del suo petto, figlio.

Sulle quinte nere del teatro scorrono immagini, stelle e costellazioni si riappropriano di una notte che non
c’è.

Antonella D’Ascenzi volteggia, nella sua gonna ampia, e inizia a scrivere la sua storia; la pièce è quasi
totalmente scevra di testo, fatta eccezione per alcune frasi recitate a mo’ di poesia, che sanno farsi danza,
così come parallelamente i movimenti, i gesti, il ritmo cadenzato di passi e musica diventano parola.

D’Ascenzi si avvicina a due corde che penzolano in scena: alcuni fari di taglio individuano una marionetta,
dall’altro lato del palcoscenico. Le stesse luci mostrano i fili tramite cui questa viene mossa: sono
sottilissimi e fragili, ma bastano per trasmettere la vita. La magia sta soprattutto nel non mascherare i gesti
della marionettista: le sue mani, diventate farfalle, ballano per consentire ai due corpi di ballare.

Le due “donne” si avvicinano, la coreografia diventa un passo a due: la performer, con cura materna,
avvicina a sé la marionetta, la abbraccia, la protegge e lascia che la leggiadria con cui si muove divenga
propria anche del corpo animato, finché quasi non si distingua la carne vera: di entrambe si vede solo
l’anima.

“Volevo regalarti la migliore delle vite possibili” si legge sullo sfondo. E la magia di questi fili che si
intrecciano di stupore forse lo è davvero, una delle migliori vite possibili.

Irene Conte

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