La identidad

Sono seduta all’altezza di sei specchi che pendono dalla torre scenica. Ondeggiano generando qualche riflesso nella mia direzione. Dalle poltrone, sempre più dita puntano verso quegli specchi e qualche sussurro incuriosito è affidato all’orecchio di un caro che siede a fianco. Di tanto in tanto, emerge la forza delle risate di un bambino, mentre riflessi e riflessioni toccano noi adulti man mano che i fari del teatro si spengono.

Vesania entra in scena. Cammina pensierosa cambiando direzione fino all’ingresso della maschera nera di sé stessa da cui è punzecchiata e perseguitata. Danzano in sincrono. La maschera è beffarda nell’approfittare del vorticare frenetico e spaventato di Vesania. Danza sconsolata, costretta al confronto con la propria alterità. Sembra una marionetta che inizia poi a roteare da sola, si ferma e si libera del corpetto color carne che, in un contrasto di luci e ombre, esala il chiarore della sua anima libera. Vesania impiega tutta la muscolarità della sua danza solitaria nell’ascesa e discesa lungo un palo verso la maschera nera fissata in cima. «Fisicamente estenuante!»  esclama una signora alle mie spalle. Vesania cade. La musica di sottofondo è un piano allegro e impietoso.

Di nuovo, ecco i due opposti sul palco, questa volta ciascuno traccia il proprio tragitto senza incontrarsi. Il bambino che prima rideva ora piange: «Non ho visto niente!» Non ha visto Vesania indietreggiare e scomparire  tra le quinte. Il suo pianto è denso ma puro come l’anima di chi non ha ancora conosciuto e riconosciuto il doppio, il bianco e il nero, le ombre. È proprio il pianto di quel bambino a ricordarci che il teatro incide nel profondo, lavorando sulla pasta grezza della nostra umanità, malleabile in un continuo bilanciamento di chiari e scuri.

Chiara Guerri

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